Per Gianni Celati
di Massimo Rizzante

Posso tranquillamente affermare che il poco che ho scritto, letto, tradotto fin qui, l'ho fatto per amicizia. Credo che tutti coloro che spendono buona parte della loro vita dedicandosi a quello che chiamiamo "letteratura" sanno o sospettano il significato di questa «virtù» che, secondo Kundera, è la sola a cui ci possiamo ancorare quando abbiamo ci coglie il presentimento o la presunzione di avere delle sane convinzioni. Si scrive per qualche amico vivo, o in molti casi per qualche amico defunto, che non abbiamo mai conosciuto personalmente, ma da cui ci sarebbe impossibile separarci.
Nel caso di Celati l'amicizia non designa soltanto una relazione umana, ma il suo stare al mondo e, di conseguenza, la forma del suo narrare.
Quando dico che in Celati l'amicizia è la forma del suo narrare non intendo utilizzare nessuna categoria estetica, filosofica, teologica della parola amicizia. Non voglio dire, cioè, ad esempio, che i suoi racconti, i suoi saggi, le sue traduzioni riflettono un'idea del mondo fondata sul principio dell'amicizia. Voglio dire un'altra cosa: Celati si ispira all'amicizia, a una mutua simpatia degli elementi, per narrare.
Quando narra, Celati cerca, in altri termini, di dare voce al suo nucleo affettivo, di essere amico di ciò che lo circonda, senza distinzioni né gerarchie. Di più: cerca di mantenere un legame di amicizia e simpatia con ciò che rende possibile questo stesso legame: quale altro modo di aprirsi all'incanto di ciò che c'è?
Non c'è racconto se questo non trova alcuna risonanza in un altro essere umano. Nessuna forma narrativa, per quanto individuale, non diventa un'autentica
scoperta se non ha le sue radici in una comunità, in una civiltà, in un "noi", se non è il precipitato di ciò che ci precede. Prima di colui che narra e prima del suo racconto, esiste "un luogo" dove un essere umano incontra altri esseri umani. Celati, per me, è il poeta dei luoghi che rendono ancora possibile il racconto.

Quanto ho detto, mi porta a un'altra considerazione.
Nel corso del XX secolo, e in modo ancor più puerile in questo primo scorcio di XXI secolo, due linee di condotta o se vogliamo due pratiche artistiche hanno continuato a coesistere: la ricerca del nuovo e il dialogo con il passato. Per la prima la novità è un imperativo non solo artistico, ma morale, politico. Per la seconda, il "mai visto" è frutto del "già visto", la novità è qualcosa che nasce dalla relazione incessante con le forme del passato. La prima, di conquista in conquista, ha raggiunto la sua tomba. La seconda non avrebbe nulla da temere – in fondo sopravvive dalle nostre parti dai tempi di Omero – se non fosse che deve costantemente giustificarsi di fronte alle pretese della prima: deve dimostrare la necessità del costante ritorno, mentre colonie di avanguardisti di prima, seconda e terza generazione vorrebbero continuare la loro corsa in avanti. Il problema è che troppo spesso noi consideriamo il passato come qualcosa che ha prodotto il presente in cui viviamo. Invece, il passato, e soprattutto il passato dell'arte, è fatto di possibilità compiute e incompiute, tanto che il presente artistico che viviamo è solo una possibilità fra molte.

La mia grande stima per Celati nasce anche da questo: è qualcuno che ama camminare nei cimiteri. È un modo molto umano di dialogare con il passato. Lo fa per respirare, per non rimanere preda di quel contagio che riduce il presente ad attualità, che separa accanitamente il passato dal presente con lo scopo di rendere il passato qualcosa di morto affinché noi, gli uomini del presente, possiamo credere di essere qualcosa di nuovo, di post-umano, di diverso, di meglio, come se il presente ci desse una patente di superiorità su quelli che ci hanno preceduto.
Celati pratica quella che Carlos Fuentes, il grande scrittore messicano, ha definito una volta «la buona lezione» delle pietre: rinuncia a sacrificare il passato, a «esiliarlo» dal presente, il quale diventa incomprensibile senza la sua relazione di amicizia, di mutua e simpatetica compresenza, con il passato.
Tuttavia è chiaro che in arte, o in quel che vogliamo chiamare arte, non esiste il rispetto assoluto per ciò che è stato: non si può, in altre parole, dialogare autenticamente con il passato senza che la nostra operazione non provochi una qualche forma ludica. Da qui, l'irriverenza del narrare di Celati, i suoi numeri da saltimbanco dell'anima. Con Celati si ride. È un riso che viene prima di colui che narra e prima del suo racconto.

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