Fin da quando ero bambino e passeggiavo sul lungomare tenendo per mano mia nonna, ormai cieca, ho sempre avuto la sensazione di aver ereditato un segreto di cui ancor oggi non riesco a decifrare il codice. Chi è stato a suggerirmelo? Perché qualcuno mi ha consegnato un segreto senza offrirmene la chiave? Quale adulto avrebbe compiuto un atto così perverso nei confronti di un bambino? Forse può essere andata diversamente, forse il segreto mi è stato rivelato, ma troppo precocemente, per cui ne ho dimenticato il contenuto e il codice, conservando nella memoria solo la certezza della sua trasmissione. Forse il segreto è racchiuso in quelle passeggiate di un bambino curioso che porta a spasso una cieca e le indica tutto quello che vede. Forse il segreto è nella cecità di mia nonna, un'anziana signora un po' eccentrica, che aveva visto le stesse cose prima di me e che nonostante ciò desiderava vederle ancora attraverso i miei occhi. Perché? Non saprei. Ma da allora mi sento una strana specie di erede. Direi che sono un apprendista erede: qualcuno che non finisce mai di imparare che l'originalità, o il segreto di ogni individuo, non si rivela che nel dialogo e nell'imitazione degli altri, di coloro che l'hanno preceduto nel passato e di coloro che, ciechi, camminano con lui nelle brume del presente.

La litania della «poesia di ricerca» che in Italia non ha mai smesso di suonare come una campana a morto nei confronti della poesia cosiddetta «tradizionale», io non riesco ad ascoltarla. Non ho mai personalmente compreso questa nozione. Non mi appartiene. Per me non c'è una distinzione tra poesia «tradizionale» e «poesia di ricerca». La «poesia di ricerca» è quella che cerca alleanze fuori dalla pagina, mentre quella «tradizionale» è serva dei suoi ristretti confini? La «poesia di ricerca» è quella che confonde le frontiere delle arti, mentre quella «tradizionale» solfeggia su un solo monotono pentagramma? Cavalcanti è meno sperimentale di Amelia Rosselli? Sanguineti è più sperimentale di Guido Gozzano? Si tratta di una nozione ideologica, che ha una sua storia e una sua giustificazione storico-critica, ma che è stata ed è – oggi ancor più che negli anni sessanta e settanta del secolo scorso – un'arma spuntata.

Da troppo tempo ormai il voler fare dell'artista ha preso il posto del poter fare, per cui oggi la cosiddetta arte contemporanea, al culmine delle sue pretese romantiche, si è completamente dimenticata del mestiere e dello sforzo che sono necessari per superare la resistenza della materia. Ecco un'altra cosa che ho dovuto imparare con fatica: la disaffezione dell'arte, della letteratura, rispetto al suo habitus artigianale è una grandiosa mistificazione che ha impoverito il mondo. Da questa povertà si può rinascere, a patto che si ricominci dai rudimenti di ogni singola arte, a patto che la libido della scrittura non prenda il posto del piacere per l'opera. A patto che si abbia l'umiltà di riconoscere i limiti di ogni arte.

Che cosa fa Montaigne? Legge gli antichi e le loro esperienze confondendole con le proprie. Gli Essais sono il risultato assolutamente provvisorio – da qui la loro forma frammentaria, priva di un vero ordine e di un sistema di classificazione, lontana da ogni enciclopedismo – della rilettura del mondo antico alla luce del suo presente e della sua situazione storica individuale. Come tutti gli umanisti Montaigne ama il passato. Pensa che il passato di Properzio e di Orazio e di tutti gli altri poeti antichi sia da imitare, ma, a differenza di tutti gli altri umanisti (a parte Rabelais) il suo scopo è molto più modesto. La sua domanda è: tutti questi grandi uomini del passato che cosa hanno a che fare con me? Che cosa hanno da dirmi? E ancora: che aspetti della vita hanno rivelato che io non ho ancora scoperto? Sono le stesse domande che si pone il lettore del romanzo convocato da Rabelais all'inizio della sua opera, il quale, rinunciando alle altre occupazioni, si lascia prendere interamente dal racconto. Montaigne, in altre parole, legge le opere degli antichi come fossero dei récits.

Giacomo Leopardi diceva che «Non si può tradurre un poeta senza essere un vero poeta». Non lo so. Tradurre la poesia mi aiuta a scrivere in prosa. Non è un paradosso. Più resti fedele alla parola poetica più ti rendi conto della sua distanza dal mondo della prosa. Anche per uno come me che non ama la poesia lirica. Né la prosa poetica. Ma forse la domanda da porsi prima di tradurre sarebbe: c'è una differenza tra la metafora in poesia e la metafora in prosa? E ce ne sarebbe una seconda: perchè abbiamo bisogno della metafora? La risposta alla seconda è: perché abbiamo bisogno di bellezza. La risposta alla prima è: una metafora in poesia è programmata attraverso l'evocazione visuale a sublimare gli oggetti, le azioni, i ricordi riducendo – ma amplificando ad libitum la relazione tra i campi semantici della lingua – lo spazio tra un individuo e ogni altro essere vivente. La metafora in prosa è programmata per un'altra funzione: cerca di comprendere e decifrare il codice di un personaggio specifico.

La storia della poesia, del romanzo, sono sovranazionali, ma ci sono ancora molti passati da esplorare e da scoprire, che si rivelano attraverso le singole opere dei singoli scrittori, i quali portano con sé le loro tradizioni come tante chiocciole la loro conchiglia... Se gli scrittori, i poeti, i romanzieri non si prendessero cura dei loro pari, la critica letteraria e l'editoria sarebbero ancora più povere di quello che sono. Prendersi cura di un'opera è riconoscerla come valore. Per me, alla fine, è sempre un gesto d'amicizia e il miglior modo di scoprire me stesso. Di sentirmi meno isolato.

«Oggi abbiamo imparato a sottomettere l'amicizia a ciò che chiamiamo le nostre convinzioni. E lo facciamo addirittura andando fieri della nostra rettitudine morale. Ci vuole in effetti una grande maturità per comprendere che l'opinione che difendiamo non è che un'ipotesi privilegiata, necessariamente imperfetta, probabilmente transitoria, che soltanto i veri ottusi possono far passare per certezza o verità. Al contrario della puerile fedeltà a una convinzione, la fedeltà a un amico è una virtù, forse l'unica, l'ultima». Milan Kundera

C'è un virus che da qualche decennio sta decimando una parte della popolazione mondiale. Questa specie in via d'estinzione è formata da coloro che i francesi avrebbero chiamato in tempi non troppo lontani (o forse solo meno vicini) passeurs: scrittori, critici letterari, direttori di riviste capaci di "far passare" idee, valori, opere, intuizioni da una celletta all'altra dell'alveare culturale, di far rimbalzare delle vere opere originali (non necessariamente "nuove") da una sponda all'altra del mondo: gente in grado di scovare talenti perfino nella spazzatura del noir o nelle biografie di carcerati, di catalizzare le energie più vive del presente e del passato e offrire tutto ciò su un piatto d'argento ad amici, lettori ed editori. Proguidis era ed è forse uno degli ultimi esemplari di questa specie. E come un piccolo Atlante ancora oggi si porta sulle spalle il peso di un mondo che ha disertato il piacere del logos: del legarsi e leggersi attraverso la parola, un piacere irrinunciabile per un greco. La morìa dei passeurs resterà nella storia come un segno indelebile dell'entrata dell'arte in una fase nuova, una fase dominata da una civiltà che ha rinunciato alla percezione estetica del mondo e con essa al piacere dell'opera e al piacere di leggersi attraverso l'opera.

Massimo Rizzante (1963) ha studiato a Urbino, Leuven, Nijmegen, Klagenfurt, Paris, Granada, Tokyo. È poeta, saggista, prosatore e traduttore. Ha fatto parte dal 1992 al 1997 del «Seminario sul Romanzo Europeo» diretto da Milan Kundera a Parigi. Dal 1993 al 1996 è stato redattore della rivista letteraria «Baldus». Dal 1993 è redattore della rivista «L'Atelier du roman» (Paris).



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