Memoria su certe letture (1980-81)
Note per un articolo mai concluso
di Gianni Celati

Quando avevo vent'anni sono andato all'università per studiare lingue e letterature straniere, ma ho studiato soprattutto linguistica. I tradizionali studi umanistici avevano un'aria di torpore, mentre nei corsi di linguistica trovavo qualcosa che aveva il senso d'una ricerca con orizzonti ancora lontani. Erano gli anni in cui la riscoperta del corso di linguistica generale di Ferdinand De Saussure apriva la strada ad una riflessione su come si parla e come ci si capisce. Da questi studi si imparava che il significato non è una sostanza già assegnata alle parole, ma il risultato di processi di adattamento e differenziazione secondo le varie lingue e culture, e secondo l'impianto fonetico di ogni lingua. Il che porta a considerare una lingua non più come una serie di nomi appiccicati alle cose, ma piuttosto come un sistema di smistamenti per arrivare a intenderci su cosa stiamo dicendo.

Quella di De Saussure era la scoperta che tra il suono e il senso delle parole non c'è un legame obbligato, bensì un collegamento che si dice arbitrario in quanto dipende dall'uso. Con l'altra conseguenza: che parlando o scrivendo noi adottiamo degli schemi o dei programmi che sappiamo usare ma che restano sotto la soglia della coscienza. Ad esempio: il ritmo con cui parliamo, che dipende dalla circostanza e dallo stato emotivo e dalla finalità del parlare, ed è un programma che noi adottiamo senza pensarci, ancora prima di trovare le parole da dire. Il che ci allontana dall'idea di un "io cosciente" che sa sempre bene quello che pensa e quello che dice o vuol dire. Perché parlando o avendo rapporti con gli altri noi ci affidiamo tutti i momenti a schemi che restano più o meno inconsci, proprio nella misura riusciamo a parlare e muoverci in modo disinvolto.

I miei studi di linguistica si sono svolti soprattutto sotto la direzione di Luigi Heilman ,che è stato un eccezionale insegnante. Un suo libro sui dialetti della Val di Fassa è stato per me la rivelazione: studiare come parla la gente in un piccolo territorio, ricostruire le reti invisibili che legano e gli uomini, differenziano i loro rapporti, trasformano le loro parlate.

Proseguendo in questi entusiasmi mi sono orientato verso le letture d'antropologia, e qui c'è stato un articolo di Claude Lévi-Strauss che mi ha fatto molta impressione. Era uno studio intitolato
L'Efficacité symbolique che parlava d'un vecchio testo dei Cuña, popolazione d'un territorio del Panama, usato nei casi di parto difficile. Uno sciamano lo cantava e le sue parole narravano una penetrazione negli organi genitali femminili come in un inferno mitologico, avendo poi l'effetto di sbloccare l'utero. La cosa che più mi colpiva era il fatto che delle parole potessero produrre effetti fisiologici, non solo effetti mentali o psicologici. Quegli effetti fisiologici secondo Lévi-Strauss dipendevano dal canto dello sciamano che trasformava il linguaggio in un campo affettivo, un campo di emozioni.

Nel testo dei Cuña si trattava un campo di emozioni narrative, perché raccontava la penetrazione nell'utero e la lotta dello sciamano e dei suoi spiriti con uno spirito responsabile del blocco. E mi sorprendeva che Lévi-Strauss paragonasse questi processi a quelli della poesia, definendoli una forma di "induzione" per trasformare le parole in effetti corporei. Simili idee mi portavano poi a pensare che quella "induzione" potesse essere il senso proprio d'un lavoro letterario con un effetti corporei, o con gli stessi processi per cui lo sciamano trasformava il linguaggio in un campo affettivo.

A quei tempi mi eccitavano le letture su popolazioni lontane, poemi antichi, Dante sempre molto, i poeti provenzali, le storie dei cavalieri alla ricerca del Graal, le storie Chrétien Troyes, fiabe e folklore. Non riuscivo a leggere i romanzi realistici in voga, li trovavo falsi, soprattutto ricordo il senso aridità leggendo la lingua di Moravia. Poi mi sono messo a studiare Joyce, lo
Ulysses, e quello mi ha portato via tutti gli anni di università, non solo a leggere il libro, ma a leggere la montagna di roba che era stata scritta su quel libro, e poi tutto quello che mi sembrava di dover leggere per capire quel libro. È stato un lavoro che mi ha seccato il cervello, e alla fine dopo il servizio militare mi sono laureato con una tesi sullo stream of consciousness nello Ulysses, e ho pensato che dovevo cambiar direzione.

Negli anni d'università e per tutto il servizio militare ho rimuginato su questa cose, ho studiato filosofi che non capivo, ho letto libri alla cieca, senza nessuna meta. Poi un amico che lavorava in un ospedale psichiatrico ha cominciato a portarmi cose scritte dai matti. Questo ha fissato la mia attenzione, in particolare su un giornale redatto da un anziano ricoverato, scritto su fogli protocollo in splendida calligrafia, con brani autobiografici, cronache del manicomio, deliri di persecuzione, ritratti a penna di dottori e altri degente, e perfino sonetti con una metrica precisa, rime e tutto.

Quel vecchio ricoverato doveva essere un uomo colto, e non smettevo di stupirmi per l'effetto che mi faceva il suo modo di scrivere. Tanto che ho preso l'abitudine di trascrivere su un quaderno le sue frasi più strane. Mi colpiva un'intensità delle sue parole che non si trova quasi mai nei libri: il fervore nervoso e doloroso di certi aggettivi, di certi modi di dire, e di certi giri di frase scombinati. Era come se ci fosse qualcosa da ridere, ma assurdo, pazzoide e patetico. Rimbaud diceva: "le rire affreux des idiots". I fogli di quel vecchio ricoverato nell'ospedale di psichiatrico di Pesaro erano uno stimolante che ridava aria ai pensieri, sepolti e soffocati dalla prosa regolamentare dei libri accademici.

Dopo il servizio militare mi sono ammalato di epatite virale e ho dovuto restare a letto isolato in una casa per quaranta giorni. Deve essere stato per la lunga solitudine se all'improvviso, un pomeriggio, mi sono seduto al tavolo e ho scritto una ventina di pagine con lo stile di quel vecchio ricoverato, sentendo all'orecchio una precisa sonorità nel suo modo di usare le parole. Quasi senza accorgermene, d'un tratto riuscivo a scrivere con la sua sintassi, i suoi strani aggettivi, e quei sintomi di persecuzione che trapelavano da ogni sua frase. Era come mettermi nei panni d'un altro, con uno stato di abbandono che era il contrario di ciò che chiamiamo "psicologia". Si trattava di cadere in una specie di sonno a occhi aperti, dimenticandomi del mio stato di esistenza, come succede quando ci si addormenta.

Questo aneddoto ha un lungo seguito, perché un compagno d'università un giorno è venuto a trovarmi nel mio isolamento da malato, ha visto le pagine che avevo scritto e mi ha proposto di pubblicarle su una rivista. Così è successo che quelle pagine sono state lette da Italo Calvino, il quale mi ha subito scritto proponendomi di continuare il lavoro e di farne un libro. La parte di storia che mi interessa si riduce al fatto che per sette anni ho cercato di ritrovare quella vena, ma non riuscivo più a sentire la tonalità di voce che avevo sentito quel pomeriggio, e le parole diventavano sgonfie. Le parole sgonfie indicano che tutto si risolve in un gioco di norme, che tutto è "in regola" socialmente parlando, così da disinnescare qualunque intensità perturbante. Un tal gioco è chiamato "comunicazione", ma si può dire che sia l'opposto d'un passaggio di impulsi, immagini e pensieri.

C'è stata un'epoca in cui ero ossessionato da questi pensieri, e il vecchio ricoverato dell'ospedale di Pesaro era il mio sostegno e suggeritore. E ho anche avuto ossessivamente l'idea che quando si scrive dimenticando del tutto se stessi (come mi era successo) si va in viaggio forse vagamente simile a quello degli sciamani, dove si sentono voci che portano notizie, comandi, suggerimenti, o anche parole che non conosciamo e che dopo scopriamo esistono davvero (il che mi è successo più d'una volta).

In libro di Ernesto De Martino, intitolato Il mondo magico, ho trovato notizie su esperienze sciamaniche che mi facevano pensare , Lì c'era qualcosa che si riallacciava ai pensieri precedenti, sugli effetti delle parole, sul fatto di andar fuori di sé, e sul fatto che a volte con le parole su va in un viaggio che forse ha qualcosa di simile a quello degli sciamani. Con tutta l'approssimazione che bisogna mettere nel conto di questi discorsi, qui li presento come memoriale di un'epoca molto intensa. Altra cosa da dire: dopo quello di De Martino ho letto molti altri libri sugli stessi argomenti, ma non ne ho mai trovato uno che fosse così aperto nei pensieri, così poco difeso nei ragionamenti.

Gli sciamani turgusi, di cui leggevo del libro di de Martino, operavano sempre con l'aiuto di spiriti che avevano una sostanza esterna (materiale?), e andavano in viaggio con questa sostanza esterna che per loro era l'anima. Lo stesso accadeva a quei personaggi di cui parla Carlo Ginzburg nel suo primo libro,
I benandanti: personaggi popolari perseguitati dall'Inquisizione, i quali dicevano di andare in volo di notte a una battaglia rituale con le streghe per assicurare i raccolti, lasciando il proprio corpo nel letto. Ginzburg in seguito ha collegato la vicenda dei benandanti a certe testimonianze sciamaniche del centro dell'Asia. Ma la cosa che qui mi interessa dire è questa: i giudici dell'Inquisizione che svolgevano l'inchiesta sui benandanti, trovavano del tutto incomprensibile l'idea che qualcuno possa andare fuori dal corpo e volare così in altri luoghi. E questa mi pare una delle differenze essenziali, tra "noi" (occidentali progressisti) e "loro" (quelli vissuti in un mondo magico), su cui riflettere.

Per l'uomo moderno occidentale l'anima è qualcosa che starebbe in permanenza dentro il suo corpo, o dentro la sua testa, dunque qualcosa che somiglia ad una sua proprietà privata, facilmente confusa con la cosiddetta coscienza riflessiva. Nella psicanalisi poi l'anima somiglia a dei miasmi che sono come tappati dentro un botte, sicché sollevando il coperchio della botte (con l'analisi) si avrebbe modo di fiutare i vapori dell'inconscio. Ma, cosa più interessante, nell'uomo occidentale non si capisce a cosa serva l'anima, se non a dargli delle seccature, o languori sentimentali, o nevrosi, o paranoie - per poi metterlo in balia d'uno psicologo che di solito lo aiuta soltanto a tappare meglio la sua botte.

Nelle attività sciamaniche, se ben capisco, l'anima era sempre legata a questioni pratiche, a vedere in distanza, a guarire malattie, ad aiutare qualcuno in difficoltà, a permettere una buona caccia, oppure a sanare certe disfunzioni della comunità. Qui la psicologia non ha nessun ruolo, perché niente avviene come "esperienza del soggetto", niente serve per un'astratta conoscenza del mondo. Tutto si svolge come un fenomeno naturale, non diverso dal vento e dalla pioggia, ossia, diceva de Martino, "come natura culturalmente condizionata". Così in questo "mondo magico", il corpo non è mai precisamente corpo proprio del soggetto, ma un altro fatto naturale, che può essere condizionato dall'esterno.

L'esempio del rituale
cuña per sbloccare l'utero delle partorienti, letto e riletto, si collegava a questi pensieri un po' vaghi e ossessivi sulle pratiche sataniche. Tutto questo era lontano e astratto . Ma a parte ciò, ricordo la notizia ricavata dai viaggi di Rasmussen, su uno sciamano eschimese che prima di compiere un rito magico si concentrava per vedere se stesso come uno scheletro; ed esaminava tutti gli organi perituri del suo corpo, come vedendoli davanti a sé,. In quanto scheletro diventava quella parte di sé che l'acqua e il vento non potevano distruggere: il luogo dell'anima fuori dal corpo.

In quel periodo stavo a Londra con una borsa di studio, e passavo i miei giorni nella grande biblioteca del British Museum, dove ho divorato tutto quello che mi capitava sotto mano degli antropologi di scuola inglese, Tylor, Frazer, Malinowsky, Radcliffe-Browne, Evans-Pritchard. Quei grandi antropologi - Tylor e Frazer ad esempio - accumulavano aneddoti da fonti disparate: notizie su popolazioni lontane, voci di leggende, tracce di miti, e ne facevano una schedature di dati informativi. Io leggevo quei libri perché riportavano un'infinità di piccoli aneddoti, o racconti, a volte inimmaginabili. Ma in che senso erano diversi dai testi letterari, dai romanzi, moderni e antichi? Direi che quei libri sfruttavano il normale stato di sospensione della meraviglia che induce all'ascolto delle narrazioni. I dati informativi su popoli primitivi non sono altro che racconti fatti da qualcuno, poi schedati e impastati in una nuova narrazione - com'è il caso del
Golden Bough di Frazer, libro interminabile. In tutto questo traffico di spiegazioni e dimostrazioni su popoli diversi da noi, c'è di mezzo la meraviglia.

I racconti del viaggiatore Rassmussen sulle pratiche sciamaniche degli Eschimesi erano molto di più trascinanti di tutti i romanzi correnti. Non dico che Rasmussen romanzasse le sue osservazioni, ma dico che le sue narrazioni sono un esempio di perizia narrativa, con qualcosa di magico che suscita sempre meraviglia. In questo senso sono un "fatto culturale". Sono rituali di racconto, che un antropologo eschimese potrebbe studiare come i nostri etnologi studiano i rituali della Nuova Guinea. I resoconti di un antropologo britannico come Evans-Pritchard, sulle pratiche di magia degli Azanti, si leggono con meno slancio, perché sono abbastanza irrigiditi nella precisione empirista Ma anche l'etnologia empirista, che bada solo ai dati informativi controllabili, alla fine è un rituale di racconto.

Ernesto da De Martino, nel libro che ho citato, dice che nelle narrazioni etnografiche non bisognerebbe "soltanto verificare il soggetto della proposizione" (cioè se le cose descritte sono vere o false, reali o irreali), "ma anche il suo predicato" (ossia come viene stabilito che quelle cose sono vere o false, reali o irreali). In altri termini, i dati informativi in sé non hanno senso, se non si calano in una certa pratica di scambio, simile o parallela a ciò che ho chiamato rituali di racconto. È la pratica di scambio che stabilisce se qualcosa va inteso come vero o falso, reale o irreale, secondo il luogo e la cultura dove quel fenomeno è stato registrato. Ed egualmente: è il modo in cui circolano i racconti ciò che stabilisce il senso e l'uso dei racconti – se sono buoni, utili, emozionanti o meno. Non esiste un vero o un falso, un reale o irreale, fuori dalla pratica di scambio in cui si calano le nostre parole o in nostri atti. Questo vale anche per la giustificazione dei fatti di magia, o poteri magici. Marcel Mauss nel suo lungo saggio sulla magia arriva a dire più o meno questo: che la magia esiste nella misura in cui una popolazione crede alla magia, ossia è in grado di parteciparvi emotivamente.

Non c'è dubbio che l'arte narrativa abbia qualcosa in comune con vecchie forme di magia di cui abbiamo perso le tracce; e che ancora oggi ripeta certe mosse magiche nei suoi rituali, per quanto questi si siano degradati. Io non sarei neanche propenso a distinguerla così tanto dalla poesia, considerando che l'una e l'altra derivano da pratiche magiche arcaiche. Di sicuro l'arte narrativa non è mai consistita nell'inventare "trame", ma in una perizia emotiva per l'indurre una stato sospeso di meraviglia che somiglia a un viaggio dell'anima. Questo non ha niente a che fare con la nostra idea di rifugio nell'interiorità, ognuno dentro la propria botte; al contrario, è un viaggio dell'anima nella misura in cui ci si dimentica di se stessi e della propria "esperienza soggettiva". Un'immensa quantità di scambi tra gli uomini avviene attraverso queste capacità di carattere emotivo, o meglio empatico. Aristotele l'ha chiamata "mimesis tes praxeos", che vuol dire adesione a una prassi, ossia empatia. Ed è una capacità che può diventare anche un modo di sciogliere dei blocchi del corpo o della mente
.

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