La fica

di Petr Král

Malgrado la sua apparente volgarità, non esiste un'espressione migliore; contrariamente a «sesso», troppo clinico, o a «pelliccia», troppo lusinghiero, «fica» indica con fermezza intrigante la cosa in sé – compreso il suo osso nascosto – entrando allo stesso tempo in comunione con la sua sostanza: l'inattesa tensione che introduce nel mondo. L'espressione ha una tale capacità di evocazione che, perfino sotto l'austerità rivoltante di un abito femminile ermeticamente chiuso, ci incita a insudiciare rozzamente la cosa che indica, così come la durezza di ciò che preme dietro il più tenero dei desideri: la voglia di sbattersi quella donna, di scoparla in quel preciso istante contro una palizzata, in piedi, a sangue, nel pieno della notte o durante una giornata senza pioggia. La parola, allo stesso modo, sembra esitare tra il concreto e l'astratto, ora tastando il volume e i contorni della cosa, ora rivolgendosi verso la sua chimera lontana. E tutto ciò è ancora ragionevole. La cosa, per anni, non è nient'altro che un vago indizio, uno spazio bianco, un punto interrogativo fra due cosce fuori portata. Solo più tardi, quando in primavera un corpo sconosciuto ci viene incontro su una strada, si trasforma all'improvviso in un solido promontorio solleticato dalle pieghe di una gonna. La gonna e, sotto, la biancheria intima che sfioriamo, che sfiliamo, anche infarcita com'è di peli. E poi finalmente palpiamo quella cosa, la sentiamo inumidirsi, ci apriamo un varco, cominciamo a esaminarla, ci addentriamo in essa, ne seguiamo le tracce, ne cerchiamo il fondo. La fica è una
quête infinita, qualcosa che si può sempre e soltanto scoprire, conquistare, qualcosa che è sempre lì, davanti a nostri occhi, nel profondo del nostro essere e della notte, nel più segreto del bosco e della poesia.

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